Donatori di sangue: cercansi giovani (non precari)

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Donatori di sangue: cercansi giovani (non precari)

Cresce il numero delle persone che scelgono di donare il sangue, ma non nella fascia di età tra i 18 e i 35 anni. Motivo? Lo stile di vita e l’incertezza lavorativa

Ago e sorrisi. Filomena, Cristina e Carmela sanno come bucare la vena con simpatia. Al centro donatori di sangue dell’Istituto dei Tumori di Milano l’invito alla chiacchiera è simile a quello che aleggia dal parrucchiere. Mentre le sacche di sangue si riempiono (450 ml per seduta) le assistenti ti distraggono chiedendoti della famiglia, del lavoro, delle prossime vacanze. La sfilata di bracci tesi termina con un cuoricino di gomma da stringere con la mano per pompare il prezioso liquido rosso. Tutto si conclude in circa 10 minuti. Alla fine ti danno anche il buono colazione. Grazie, ci vediamo fra tre mesi. Ma c’è chi dona solo il plasma o le piastrine (lo si può fare anche una volta al mese). Lì le sedute durano tra i 45 e i 90 minuti, una macchina con tante rotelline seleziona quello che riceve e reimmette nel corpo il liquido privato della parte ematica richiesta, prelevata stavolta in grande quantità. «Diamo a tutti del tu per instaurare subito un rapporto di serenità, alcuni donatori li abbiamo visti crescere e poi portare i propri figli. Ma la scommessa è che un nuovo donatore torni per la seconda volta». In sala d’aspetto i giovani ci sono, non tanti. I volontari dell’Adsint, l’associazione legata all’Istituto dei Tumori costituitasi oltre 50 anni fa, si accorgono dei loro sguardi un po’ titubanti, di quella confusione che prende davanti al questionario dettagliato in cui vengono richieste risposte precise sulle proprie attività degli ultime settimane, dai viaggi al sesso, alle cure odontoiatriche. L’imprevisto che costringe a rimandare la donazione può essere sempre dietro l’angolo. I volontari sono tutti ex donatori che per raggiunti limiti di età (70 anni) ora aiutano in altro modo. Luciano, gagliardo ottantunenne, ha dato il sangue dal ‘65 al 2009 e ha al suo attivo 150 donazioni. Si commuove: «Un sabato pomeriggio mentre ero attaccato, si è presentata l’urgenza per un bimbo in sala operatoria. Mi hanno chiesto di riempire in via eccezionale una seconda sacca. Spero che sia servito. Non sappiamo mai niente di chi riceve il sangue». Luciano si rammarica che non sia riuscito a convincere una sua nipote a donare. Gli fa eco Giorgio, 70 anni: «I miei figli glissano. Ho trasmesso loro la coscienza, ma ho fallito nel dargli la spinta per venire qui». Secondo i dati del 2018 forniti dal Centro Nazionale Sangue, pur essendo i donatori complessivi (dopo anni con il segno meno) in leggera crescita (quasi 1,7 milioni con un incremento sul 2017 dello 0,2%) quelli tra i 18 e i 25 anni restano in calo costante dal 2013 (ora 210 mila, il 12% del totale).

Giovani donatori in calo

Stesso discorso per la fascia 26-35 anni, (il 17%). Insomma, la parte della popolazione potenzialmente più sana non costituisce neppure un terzo del totale dei donatori. E i debuttanti sono in calo del 3,7%. «A ostacolare ci sono le abitudini sessuali disordinate, l’uso di droghe più o meno pesanti, persino i piercing e i tatuaggi. Ma non solo e non tanto questo», spiega Gianpietro Briola, presidente nazionale di Avis, «manca la disponibilità sociale, gran parte dei giovani lavora a tempo determinato con contratti temporanei e orari che spesso non si conciliano con quelli dei centri trasfusionali. Ma punti importanti della donazione sono la costanza e la regolarità». Con le sue 3.366 sezioni, l’Avis ha 1 milione 350 mila donatori e lavora anche in Svizzera e in America Latina «dove abbiamo compiuto grandi progressi in Salvador. Come sempre, ci sono notevoli disparità tra Nord e Sud. Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia e Toscana sono le regioni più virtuose e il primato corrisponde alla presenza di strutture ospedaliere di eccellenza, anche se la Toscana soffre di un’immigrazione sanitaria notevole in rapporto alla sua popolazione e dunque di una richiesta di sangue eccessiva». Stesso discorso per Roma che ha anche il problema di una parte della popolazione non integrata nel tessuto sociale. «Questo è uno dei temi importanti da affrontare nel futuro: coinvolgere gli extracomunitari». Se Friuli e Marche si distinguono per la donazione di plasma, Sardegna, Lazio e in parte la Sicilia e la Campania non sono autosufficienti e devono chiedere aiuto alle altre regioni. «Spesso si tratta di carenze organizzative ma per la Sardegna la giustificazione è la talassemia che richiede in modo costante il 55% del sangue disponibile». Tuttavia, sostiene il Cns, anche nel 2018 in Italia è stata garantita l’autosufficienza totale, mentre per i derivati del plasma siamo ancora al 70% di prodotto italiano, con un costo notevole per il Servizio Sanitario Nazionale nel reperire il restante 30% sul mercato. Dunque un sistema in equilibrio seppur precario, dove si analizza con preoccupazione quel ricambio fisiologico annuale del 10/11% dei donatori, da sostituire per limiti di età o insorgenza di patologie. «Dobbiamo ancora battere l’idea della donazione legata all’emergenza, come l’incidente o la malattia di un parente», conclude Briola. E d’estate lo scenario diventa più complicato.

Emergenza estiva

All’Adsint si inventano le campagne di promozione. «Prima di partire, chiediamoci: ho donato? così come ci chiediamo se abbiamo chiuso il gas», commenta Monica Zipparri, che coordina i progetti di comunicazione coinvolgendo anche gli istituti di design e fotografia. «Il momento critico arriva agli inizi di settembre, quando riaprono le sale operatorie. Se si sono fatti viaggi in paesi a rischio con molta probabilità si deve saltare un turno. Ma anche in Europa e in Italia ci potrebbe essere il rischio della Zanzara del Nilo». Risultato: un 30% in meno di donazioni, calo che si ripete anche dopo le vacanze di Natale. Parafrasando il linguaggio della metro, la Milano del sangue (la città ha una quota di donatori del 6% contro il 4% nazionale) ha potenziato un’altra linea rossa unendo in una rete le nove associazioni territoriali. E poi la campagna nelle scuole, necessaria per coltivare una cultura della donazione.«Una sfida entrare nel modo di comunicare dei 18enni. Spingere solo sul lato emotivo non serve, i ragazzi si sentono invincibili. Diamo loro materiale informativo, li riassicuriamo che se fumano, si fanno una canna o una birra ogni tanto non succede nulla; cerchiamo di convincerli che donare può servire anche a monitorare la loro salute. E li veniamo a prendere con il pullmino». Flavio Arienti, responsabile del centro trasfusionale dell’Istituto dei Tumori ricorda la spontaneità della donazione di un tempo, in cui si veniva anche grazie alla mobilitazione dei gruppi aziendali, oggi praticamente scomparsa. «Ma ora c’è più sicurezza, tracciabilità, attenzione alla salute, ogni donazione è regolata da una valutazione medica. Tuttavia mancano nuove leve». Che fare? «Da qualche anno stiamo studiando il Patient Blood Management, cioè una migliore gestione del sangue del paziente. In America, dove i criteri sono stati adottati 3 anni fa, si è ridotto l’utilizzo del sangue del 20% ». Una nuova efficienza che può aiutare l’entusiasmo di chi dona. «Perché lo faccio? Perché serve alla società», dice Marzia, 29 anni. «Senza il nostro contributo, l’ospedale si ferma». La squadra ideale è quella messa su da Giulia Bedendo, ultima donazione prima di compiere 70 anni, che è riuscita a convincere figli, cognati, nipoti: «Siamo una decina, è un dovere civico. Ma l’ago non sono riuscita mai a vederlo entrare nella vena».

Fonte: Corriere.it